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La catena del "non posso farlo"

  • Immagine del redattore: Eleonora Bontempi
    Eleonora Bontempi
  • 4 lug 2022
  • Tempo di lettura: 3 min

Aggiornamento: 19 set 2024

Un racconto di Jorge Bucay - L'elefante incatenato - per riflettere sull'impotenza appresa.


Quante volte abbiamo detto "non posso farlo" di fronte ad una situazione, una richiesta, un'aspettativa? Quel pensiero vaga per la mente annebbiando la percezione di efficacia e immobilizzando le risorse cognitive, emotive e fisiche per agire. Perché "non posso"?


Come L'elefante incatenato


"Quando ero piccolo adoravo il circo, ero attirato in particolar modo dall’elefante che, come scoprii più tardi, era l’animale preferito di tanti altri bambini.

Durante lo spettacolo faceva sfoggio di un peso, una dimensione e una forza davvero fuori dal comune… ma dopo il suo numero, e fino ad un momento prima di entrare in scena, l’elefante era sempre legato ad un paletto conficcato nel suolo, con una catena che gli imprigionava una delle zampe.

Eppure il paletto era un minuscolo pezzo di legno piantato nel terreno soltanto per pochi centimetri e anche se la catena era grossa mi pareva ovvio che un animale del genere potesse liberarsi facilmente di quel paletto e fuggire. Che cosa lo teneva legato?

Chiesi in giro a tutte le persone che incontravo di risolvere il mistero dell’elefante; qualcuno mi disse che l’elefante non scappava perché era ammaestrato… allora posi la domanda ovvia: “Se è ammaestrato, perché lo incatenano?” Non ricordo di aver ricevuto nessuna risposta coerente. Con il passare del tempo dimenticai il mistero dell’elefante e del paletto.

Per mia fortuna qualche anno fa ho scoperto che qualcuno era stato tanto saggio da trovare la risposta: l’elefante del circo non scappa perché è stato legato a un paletto simile fin da quando era molto, molto piccolo. Chiusi gli occhi e immaginai l’elefantino indifeso appena nato, legato ad un paletto che provava a spingere, tirare e sudava nel tentativo di liberarsi, ma nonostante gli sforzi non ci riusciva perché quel paletto era troppo saldo per lui, così dopo vari tentativi un giorno si rassegnò alla propria impotenza. L’elefante enorme e possente che vediamo al circo non scappa perché crede di non poterlo fare:

sulla sua pelle è impresso il ricordo dell’impotenza sperimentata e non è mai più ritornato a provare… non ha mai più messo alla prova di nuovo la sua forza… mai più!

A volte viviamo anche noi come l’elefante pensando che non possiamo fare un sacco di cose semplicemente perché una volta, un po’ di tempo fa ci avevamo provato ed avevamo fallito, ed allora sulla pelle abbiamo inciso “non posso, non posso e non potrò mai.” L’unico modo per sapere se puoi farcela è provare di nuovo mettendoci tutto il cuore… tutto il tuo cuore!”


L'impotenza appresa

Quando le nostre azioni non trovano conclusione nell'obiettivo prefissato, quando non giungono a termine come previsto la sensazione prevalente è l'impotenza, la sensazione di non essere in grado di modificare l'ambiente o la situazione.

Il costrutto in psicologia è stato ampiamente analizzato da uno dei padri fondatori della psicologia positiva, Martin Seligman, insieme a Meyer e Solomon. A partire dai risultati di esperimenti condotti su animali e poi su esseri umani, gli autori hanno riscontrato che se di fronte ad un evento spiacevole la persona non può allontanarsi - o, comunque, difendersi - questo evento si ripercuoterà sulla percezione di controllo che la stessa acquisirà. In altri termini, si apprende ad essere impotenti di fronte a determinate situazioni quando, in passato, le stesse sono state vissute - o meglio subite - senza alcuna possibilità, reale o percepita, di controllo.

Così l'elefante pensa di non poter avere il controllo sulla sua situazione in quanto, da cucciolo, avendo meno forze, non è riuscito a sfuggirvi.

Non rimane incatenato perchè non ha le forze, ma perchè crede di non averle.


In conclusione

Ogni persona porta con sè le credenze sulle proprie capacità e sul proprio controllo dell'ambiente che si è costruita nel corso della vita, sulla base delle esperienze personali e di quelle vicarie, cioè apprese per osservazione di quelle altrui. Talvolta, però, portiamo con noi pensieri che appartengono al sè passato, a quello che non ce l'aveva fatta perchè in quel momento non aveva le risorse per affrontare la situazione.

Anticipare il fallimento è un biglietto assicurato per la mancata vincita.

Pensiamoci al prossimo "non posso".

Per approfondire

Hiroto, D. S., & Seligman, M. E. (1975). Generality of learned helplessness in man. Journal of personality and social psychology, 31(2), 311-327.


Jorge Bucay (2014). Lascia che ti racconti. Storie per imparare a vivere. Rizzoli.


Seligman, M. E., & Beagley, G. (1975). Learned helplessness in the rat. Journal of comparative and physiological psychology, 88(2), 534-541.

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